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INTERVISTA

Enrico Pitozzi

 

EP   Vorrei cominciare dalle spettrografie. Potreste parlare del pocesso di composizione (sia da un punto di vista ideativo che tecnico)? Potreste cominciare, se siete d’accordo, con B.#03 Berlin?

C-F   La spettrografia di B.#03 Berlin è costituita da un campo di impulsi luminosi e sonori che interagiscono con il corpo e con la mente di un’attrice che sembra averli immaginati, uno scambio tra interiorità e esteriorità, tra generante e generazione.

Le luci, più propriamente le allucinazioni, trovano corrispondenze tra materie simili alla roccia, alla ragnatela, alla pelle vista dall’esterno o dall’interno. Sono squarci sui temi della paura, dell’espiazione e della decomposizione e il loro intreccio luminoso alimenta una tensione propria delle favole e degli incubi. Il buio diventa un labirinto invisibile che cela l’uscita e ostacola il risveglio.

Questa opera è stata realizzata nel nostro studio illuminando con una micropila piccole superfici opportunamente preparate e filmandone i riflessi con inquadrature molto ravvicinate. A teatro è sorprendente vedere questi bagliori ingigantiti incombere nel vuoto come guardiani prigionieri di uno stato di coscienza, di una violenza istituzionalizzata.

EP   Passerei a BN.#05 Bergen. Potreste parlarmene?

C-F   La spettrografia di BN.#05 Bergen nasce da una ricerca di bidimensionalità perché è una forma di scrittura basata sul contrasto. La bidimensione confonde i termini cinematografici di piano e di campo e quindi il rapporto tra figura e sfondo, tra individuo e società.

Le macchie in movimento riconducono all'impressionismo, il momento conflittuale tra pittura e fotografia la cui contrapposizione dialettica ha definito nuove forme di linguaggio che hanno cominciato ad occuparsi dei dettagli nei passaggi temporali. Tecnicamente è la rielaborazione di una nostra ripresa effettuata durante una burrasca, un luogo topico dell’inconscio.

EP   Nell’episodio M.#10 Marseille, sono riunite entrambe. A quale necessità risponde e quale effetto provoca la loro associazione sulla scena dello stesso episodio?

C-F   Lo spettacolo sembra soggiogare i limiti della scena e le spettrografie trascinano lo spettatore in un oltre. In particolare la spettrografia di Bergen si completa con l’ombra nera che intona un canto melanconico, trasfigurata nell’enigmaticità di un oracolo e del suo responso. A noi ci è apparsa una consegna tragica perché esatta e ineluttabile.

EP   In realtà esiste una terza spettrografia, Calìa, realizzata a margine della Tragedia. Anch’essa presentata, con le altre due, nei vostri interventi installativi. Potreste parlarmene?

C-F   Calìa è la reiterazione del linguaggio della violenza nell’educazione, la mistificazione di una scrittura che tenta di cancellare e riformare i corpi e i caratteri. La stratificazione di cancellazioni che sembrano contraddire la perentoreità dei dogmi, delle regole, delle formule. È una scrittura in negativo che prevede la propria autocancellazione.

La pietra nera della lavagna può ricordare il vuoto siderale ma anche, più semplicemente, una lapide.

La polvere del gesso allude alla consumazione di una incomunicabilità che ha imparato a usare la negazione e l’invisibilità come supporto.

EP   Nelle spettrografie, così come nel vostro lavoro complessivo, c’è una tensione tra il vedere e l’intra-vedere. Una risonanza articolata sull’affiorare e sull’impermanenza dell’immagine. Potreste parlarmi di questa dimensione impercettibile?

C-F   Giacomo Leopardi scrive che il linguaggio è tanto più poetico quanto più è vago. Osvaldo Licini crea angeliche associazioni tra esseri erranti, erotici, eretici. Paolo Volponi vede che le nebbie si impigliano sui campanili e stanno con noi per delle settimane.

Forse ci siamo smarriti nell’immensità di queste visioni marchigiane, dove il visibile e l’invisibile si fondono, dove i bianchi e i neri, come nelle fotografie di Mario Giacomelli, non danno mai il grigio ma si raggiungono all’infinito.

EP   Ad affiorare sulla scena è anche una relazione sottile: quella tra gli spettri da voi evocati e le figure. Una sorta di de-locazione, di moto a levare le accomuna. Potreste soffermarvi sulla relazione spettrografie-figure in scena?

 

C-F   È noto che sulla scena vige una relazione visiva primordiale simile a quella animale, per cui una figura che resta perfettamente immobile tende a scomparire, a non esistere salvo per resuscitare con un qualunque movimento, anche minimo.

Nei rapporti figura e sfondo indaghiamo la non esistenza, l’assenza come forma mimetica nel vuoto. La figura non si muove per entrare nello spazio visivo ma lo crea con il suo movimento.

Le figure che esistono perché sono viste hanno un carico di umanità maggiore di quelle che sembrano esistere di vita propria perché stabiliscono un rapporto diretto e profondo con l’osservatore.

Gli animali amati dagli uomini acquisiscono un’esperienza umana proprio perché sono visti dagli uomini e li osservano.

EP   La mia percezione è che, a tratti, voi lavoriate sull’immagine come in negativo, vale a dire sul rovescio dell’immagine, costruendo un vuoto attorno al quale si aggregano le figure che evocate. Potreste parlarmi di questa messa in presenza dello spazio nell’immagine, o meglio, dell’immagine come costruzione di spazio?

C-F   Il nostro lavoro è un esercizio di credulità. La definizione di figure in contatto con l’indefinito, sullo scarto di osservazioni sovrapposte e contrarie. Uno sguardo che torna, che ha la proprietà del rimbalzo.

L’esperienza sensoriale ci permette di riconoscere le cose anche in condizioni di nebbia, buio, ma se si invertono i principi della visione, al negativo appunto, è sconcertante trovare l’abisso in uno spazio perfettamente illuminato, l’infinito in uno spazio finito.

La reazione istintiva, immediata, è il tentativo di aggrapparsi a qualunque cosa, con lo stupore doloroso di uno sradicamento. In questa situazione si scoprono sostegni interiori insospettabili e se ne prende coscienza.

EP   Vorrei chiedervi di parlare del disegno e dell’animazione nel vostro lavoro. Mi interessa la relazione tra di-segno e la traccia video.

C-F   Il disegno è un mezzo per fissare in una forma un’idea che altrimenti se ne andrebbe da qualche altra parte o da qualcun altro. L’animazione è il movimento di questa forma, ma può anche essere la forma di un movimento, l’idea stessa che va a muovere una forma priva di significato.

Le idee come le stelle possono essere fisse o mobili. In un cielo notturno possiamo vedere corpi che non esistono più da millenni, da prima che noi nascessimo e avessimo occhi e strumenti per osservarli. Contemplando un’esplosione atomica possiamo notare la crescita perfetta e naturale di una forma ordinata e riproducibile che racchiude caos e distruzione estrema. La distanza sensibile disegna i confini del nostro corpo.

EP   Vorrei soffermarmi sul Ciclo Filmico. Quali sono i punti principali sui quali avete operato nel passare dall’episodio scenico alla sua memoria videografica?

C-F   Quando si applica un sistema sopra ad un altro ci si scontra inevitabilmente con i problemi principali di ogni traduzione: la perdita immediata di qualcosa, l’introduzione ponderata di cose che non erano esattamente così. Abbiamo cercato di non offrire la resistenza di un filtro, di un ostacolo o di un riparo. La nostra maggiore preoccupazione si è concentrata nella possibilità di eliminare la percezione di una regia. La sensazione che chiunque potesse già sapere cosa stava per accadere. La scena da noi riportata quasi sempre non ha quinte e vive chiusa in se stessa, lo sguardo resta sempre all’inseguimento e raramente gioca d’anticipo. Lo sguardo è veramente quello di tutti, dello spettatore, dell’attore come del regista, dell’animale o dell’inanimato. Si immedesima attraverso corpi e distanze ma non appartiene veramente a un corpo, a un tempo o a un luogo. Analizzando le riprese e osservando una logica di montaggio che tenesse uniti i vari episodi in un’opera unica, abbiamo evidenziato alla fine un processo che ricorda molto quello della metempsicosi. Una teoria religiosa che fonda la propria soteriologia sulla liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni mediante l’annullamento della individualità.

Intervista rilasciata a Enrico Pitozzi per il suo Dottorato di ricerca (dicembre 2006)

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